Yggdrasil
por livio rosa
Una scatola di fiammiferi
Categories: in italiano

La strada era deserta, non c’era vento. Il mondo sembrava immobile, non fossero per le foglie che cadevano dagli alberi, dando la sensazione di movimento.
Gavril guardò il cielo nuvoloso chiedendosi se avrebbe piovuto. Si strinse nella giacca, faceva freddo, e con le mani nelle tasche e guardando per terra, continuo la sua strada.
Trovò un giornalaio aperto. Il venditore era un uomo grosso con dei baffi enormi. Fumava una pipa con tranquillità.
-Una scatola di fiammiferi per favore – disse Gavril, avvicinandosi.
L’altro atterrò lo sguardo su di lui e fece una breve valutazione della richiesta.
-20 centesimi.
-Grazie.
Gli piaceva accendere una fiamma qualche volta, per distinguere la realtà dai sogni, giacché nella realtà le fiamme si spengono. Fosse stata un’altra epoca, avrebbe pensato che al meno il riflesso del fuoco non si spegne dagli occhi.
Iniziarono a cadere delle leggere e sparse gocce. Gavril non si importò, e segui il suo lento cammino per le strade deserte, piccole e piene di macchine parcheggiate. Macchine vuote, come se la città, il mondo, fosse stato abbandonato dagli esseri umani, e restava soltanto lui a camminare per quelle leghe.
Finché passò per il portone grigio, e della casa grigia, in quella strada grigia, di un quartiere grigio, di una città grigia, in un giorno grigio. L’universo era grigio, come i suoi occhi.
Suonò il citofono, non pensò neanche nel numero, ormai era un gesto automatico.
-Chi è?
-Gavril
Il portone si apri, e lui entrò. Sali per le scale che puzzavano a piscio di gatto. Molti gatti di quelle parti, cosi come le persone. Ma i felini come gli umani, quel giorno erano appena un’impressione, una presenza fantasmagorica, giusto qualche traccia.
La porta era aperta e dietro a essa, lei. Sorridente, e nel vedere la testa che spuntava per le scale sorrise ancora di più, come se fosse capace di produrre luce propria. E lui, come sempre sorrise il sorriso timido e un po’ insulso di chi non sa sorridere. Lo stesso sorriso di un albero senza rami che ha già dimenticato il colore delle sue foglie e si è abituato all’inverno.
Non si salutarono, o al meno non nel modo come pretendiamo. Molte cose si dicevano attraverso gli occhi, una di quelle erano i “ciao” e derivati. SI abbracciarono, forte. Lo tiro per la mano, dentro casa, e lui chiuse la porta dietro a se.
-Ciao Gavril – lo accolse la madre.
-Buon giorno signora Rita.
Andarono dritti verso la stanza, non si fermarono neanche nel salotto-cucina-stanza della madre. Quella casa aveva soltanto tre vani. La porta d’ingresso stava sul primo, che era l’entrata, il salotto, la stanza della madre (che dormiva nel piccolo e vecchissimo divano) e la cucina (che consisteva in un forno con due fornelli a gas, un piccolo armadio, un frigorifero minuscolo e tre pentole appese alla parete. Il lavandino era una bacinella piena d’acqua), subito in sequenza c’era il bagno e davanti la stanza con il letto e alcuni oggetti.
Gavril si ricordava di quel divano, l’aveva avvistato abbandonato in centro, e subito aveva deciso che l’avrebbe dato in regalo alla signora Rita. Fu una faticata portarlo in autobus e ancora camminarci, ma alla fine della traversata ancora conservava un sorriso. Di quei suoi sorrisi di albero senza foglie, ovviamente. Ma Larissa sapeva che era un sorriso di felicità e anche la signora Rita aveva imparato a apprezzare quel sorriso.
La stanza consisteva in un materasso per terra con al lato una radio, n armadio senza una delle porte (dove i pochi vestiti erano ammassati confusamente, tutto quello che Larissa era riuscita a trovare buttato o rivenduto) e libri e altre carte indistinte sparsi per terra.
L’indice di Larissa schiacciò il play, e la musica iniziò a occupare lo spazio, mentre loro si sedevano sul letto.
Potreste dire che quella non era una stanza, cosi come un salotto-stanza-cucina non esiste, e che non esistono biblioteca per terra. Ma di che importano le definizioni delle riviste immobiliari che i due non avevano mai letto? Era una stanza, e quella casa aveva un salotto-stanza-cucina- E si, quei libri sparsi e quei fogli mischiati erano una biblioteca. La maggior parte di quei libri venivano dalla libreria di Michael, e i fogli erano i testi di canzoni, racconti, poesie, disegni, che erano piaciuti ai due o che, in alcuni rari casi, li avevano fatti loro stessi.
La conoscenza era a disposizione di chi volesse e passasse di là. Da quella biblioteca la signora Rita lesse il primo, di molti, libro della sua vita. Avevano anche un nome “Le parole della terra”, e un giorno anche Michael era andato lì, e dopo mi raccontò entusiasta di questo piccolo incontro.
Scuotendo la testa e guardandosi con sguardi complici iniziarono a chiacchierare, e come sempre fu lei a iniziare, era la regola come se fossero due squadre in attesa del fischio dell’arbitro, e la squadra che giocava in casa tirava per prima.
-Minu ha avuto una nidiata ieri –annunciò, non molto interessata alla notizia, ma più nel fatto di potere parlare con Gavril. Minu era la gatta grigia di listre nere che abitava in quelle strade.
Lui accese un fiammifero e guardò la fiamma per alcuni secondi, subito scuotendo la mano per spegnere il fuoco e mettendo il fiammifero inutile nella tasca. E sorridendo disse:
-È stato per commemorare
Lei rise. A Gavril piaceva quando rideva, soprattutto quando era lui che generava la risata. Si sentiva qualcosa di più in quei momenti. Già, perché anche se non fosse capace di alterare la Storia, da condottiero o dittatore, o di vincere un grande premio, almeno ecco, era capace di far ridere un’amica.
E partirono, come maratonisti professionali, in prima e poi subito in quarta. Quando iniziavano a chiacchierare, a volte anche ci mettevano un po’, ma dopo, comunque, era difficile che smettessero, non fosse per qualche evento esterno. E in quella stanza, in quella biblioteca, affogati dalla musica della radio, gli avvenimenti esterni erano condannati ad aspettare la fine del mondo.
La pioggia ingrossò la fuori, e le gocce erano l’unica distinzione per scandire il tempo in quel momento. Divorarono i loro cuori in quel pomeriggio, come in tutti i pomeriggi che si vedevano. E la signora Rita sorrideva, ogni volta che pensava a quei due giovani in quella stanza. La musica suonava indifferente e un uccellino sperduto atterrò nel davanzale esterno della finestra (l’unica della casa). Girando la testa come solo gli uccellini fanno, osservando la scena rara, visto che tempi erano quelli. Mentre gli spari scoppietavano di volta in volta e in qualche parte lontana l’umanità proseguiva la strada dell’odio e della sofferenza, due adolescenti si tenevano per mano mentre si davano il cambio nella lettura di versi e paragrafi che conoscevano meglio delle proprie tasche. O forse l’uccellino li abbia visti ballare, guardandosi e cantando (mentre si muovevano in questi movimenti pazzi che solo gli umani fanno) le parole che sapevano cosi bene come il proprio passato.
Ma tutto questo fu appena per un brevissimo momento, che dopo un po’ l’uccellino si scrollò di dosso le gocce e riprese il proprio volo, senza fare grosse considerazioni su quello che aveva appena visto.

La signora Rita non aveva mai preso un aereo, ma tutte le volte che vedeva uno che volava distante nel cielo si emozionava. Trovava incredibile come l’essere umano poteva aver inventato quello, di volare come un uccelino. Probabile che se apparisse qualcuno a offrirgli un volo in aereo, lei rifiuterebbe. Per quanto sembri contradittorio e senza senso, per Rita era ovvio.
Lo stesso successe una volta con Larissa. Fu nell’unico viaggio della sua vita, che fece con Gavril.
In quel giorno non andarono a scuola, presero un autobus fino alla stazione di treno. Li aspettarono sulla banchina, mente migliaia di persone andavano in direzione contraria a loro (infatti i due ragazzi andavano totalmente contro il flusso di chi dalla periferia andava a lavorare in centro). Presero il treno quasi vuoto e cosi andarono, in quella mattina dove il sole brillava alto e aggressivo.
Passarono per i campi di girasoli che fiorivano, quel giallo di far scoppiare gli occhi. Anche se era estate, i campi di grano erano marroni come l’autunno. Questo vasto mare che ondulava e sussurrava con il vento, chissà, dialogando con i corvi che osavano rondare il cielo.
Devono aver cambiato un paio di volte la linea, finché arrivarono al loro destino. Scesero dalla banchina deserta e calda, imbattendosi nelle montagne molto vicine. Scesero per sentieri sconosciuti e arrivarono dopo due ore di cammino e duelli con i rami, a un lago.
L’acqua era calma e non si muoveva. Rimasero assorti, ipnotizzati dal liquido. Gli alberi stavano ricurvi sulla superficie mobile. Il mondo rifletteva in quelle acque, e i due per un secondo pensarono che sarebbe bello poter cambiare il mondo in cui vivevano per quel mondo che si rifletteva calmo e semplice nel lago.
Quando il sole si pose, inondando il cielo di rosso e tingendo le nuvole di rose, si resero conto di com’era tardi.
Sorpresi dalla luna sul sentiero del ritorno e mentre pregavano per che ci fossero ancora treni o perlomeno un autobus, in mezzo all’oscurità notturna iniziarono a brillare poco più innanzi a loro alcuni puntini luminosi. Erano lucciole.
Guardarono incantati quelle stelle terrestri che sembravano chiamarli, indicando cammini segreti per avventure fantastiche. Ma per più che volessero seguirli, non li rincorsero, forse per paura, o per speranza… Il fatto è che dopo di esitare un po’ e fare due passi incerti, fecero dietro-front.
Perché è pur vero che gl’incantesimi è meglio non spezzarli. Esistono cose che è meglio lasciare nel mistero, caso contrario diventano solo qualcosa triviale del quotidiano.

Erano una coppia? Probabilmente vi starete ponendo questa questione adesso, o magari l’avete gia dedotta fin dall’inizio. Difficile rispondere a questa domanda. La signora Rita li considerava fidanzati, ma i due non si sono mai chiamati cosi, e se arrivarono a baciarsi è qualcosa che non si seppe mai. Vivevano insieme, e si amavano. Ma esistono mole maniere di amare in questo mondo.
L’amore è come le parole e i colori, esistono tante inimmaginabili forme che non le conosciamo tutte, e molte altre devono ancora sorgere.
Cosa c’entro io? Vorrei risparmiarmi questa parte, ma è il motivo per il quale mi sono deciso a scrivere queste pagine.
Li conobbi su un autobus, ero seduto in una delle sedie quando i due entrarono e lui si sedette (dopo l’insistenza di lei) nel posto libero accanto a me (l’unico di quell’autobus). Vedendo che stavano insieme, e pensando che fossero una coppia, mi alzai lasciando il posto perché lei potesse sedersi accanto al ragazzo. Ringraziò un po’ sorpresa, e dopo alcuni istanti:
-Siediti pure tu, c’è posto per tre qua.
Fu il mio turno di sorprendermi, ma era un offerta cosi sincera che mi era impossibile rifiutare, Cosi che mi sedetti sul bordo. I due iniziarono a comportarsi come se io non fossi li, continuando le loro conversazioni impossibili da seguire. Finché intonarono una vecchia canzoncina, che, guardate un po’ il caso, conoscevo. Non resistetti e iniziai a accompagnarli, e mi guardarono entusiasti. In poco tempo stavamo cantando a squarciagola nell’autobus mezzo pieno che si scuoteva come se fosse al trotto.
Dovevo scendere, e ci salutammo amichevolmente. Non mi era mai successo, e dopo essere uscito dal lavoro passai nella libreria di Michael, a chi raccontai l’accaduto. Lui prese gli appunti su uno dei suoi quaderni dove scriveva tutto quello che gli sembrasse interessante, e dopo, mettendo il quaderno a posto e pulendo gli occhiali sulla maglietta, mi raccontò che doveva essere la coppia che aveva conosciuto il mese scorso, quella che aveva costruito una biblioteca sul pavimento della stanza della ragazza. Fini dicendo che me li avrebbe presentati appena avesse avuto l’occasione.

Conobbi solamente la signora Rita, e per fortuna conosco le lingue dei gatti e degli uccelli con le quali ho ricostruito la storia dei due. Non è facile affrontare le perdite, mi disse la signora Rita, e il più grosso fardello dei vecchi è vedere i giovani morire.
Seduto vicino al finestrino, nell’autobus, vedevo la città scorrere come in uno schermo di cinema, incontravo persone che subito svanivano nel tumulto del mio percorso. Posti più avanti scoppiò un litigio, una ragazza stava protestando che la stavano assediando e tre tizzi iniziarono a gridare all’aggressore che la doveva stuprare, subito interpellati da qualcuno che si risolse a difendere la giovane.
Ringraziai l’esistenza di quegli altri Don Chisciotti, e non che fossero solo uomini, ma che mi sentivo cosi, lottando contro i mulini e credendo nella vittoria certa.
Scesi dall’autobus, e non ho avuto le forze per mettermi in mezzo a un litigio dove un ragazzo era linciato sotto accusa di “ladro”. Finsi di non vedere la macchina della polizia che passava come sempre passa nei nostri quartieri.
Come sempre quando mi ritrovo a pochi centimetri dall’abisso della morte del gelo, andai a trovare le uniche persone capaci di darmi un po’ di conforto e dividere il mio dolore, vecchi amici.
Suonai il campanello e quando la porta si apri stavo già piangendo.
Stepan colpi le mie lacrime. Non ebbi il coraggio di rispondergli. Lui insistette, non aveva fretta, non l’ebbe mai. Neanche in quel giorno di tanti anni fa.
Raccontai allo sguardo duro di Stepan e alla mutezza di Angelina come i nostri sogni erano precipitati da cosi alto, da cosi lontano. Era proprio impossibile da credere o era ancora una storia destinata a rimanere nelle rotaie della stazione?
La verità è che sentivo che la vita era come arrivare all’aeroporto giusto in tempo per osservare il proprio aereo decollare. E questo era successo veramente, prima che i nostri sogni precipitassero.
Non so cos’è la morte, dissi. Michael guardò da sopra gli occhiali. Non c’era necessità di dire niente. Forse voleva dire questo, che la morte è un silenzio.
La pioggia cadeva forte, le grosse gocce macchiavano la terra e i tuoni echeggiavano in tutte le direzioni. La piccola scia di fumo sali fino al tetto. La paglia bruciava poco a poco, sfidando la pioggia. Volevo cantare, ma la voce mi rimase chiusa in gola. Sputai sangue, ma non era il mio. Le mappe non riescono a decifrare la città, non possono.
Michael mi diede un libro, “Il volo dei corvi”, non ricordo più l’autore. Volevo fare le fusa, ma neanche Michael e la sua nemica (internet) sapevano dirmi come gli umani possono fare le fusa.
Le parole incidevano la carta. Era il momento in cui la speranza fuggiva. Ma questo, io lo sapevo, non era motivo di suicidio, la speranza torna un giorno. Una delle poche attese che valgono la pena.

Il mare è grande, enorme, imenso. Tutti i fiumi del mondo confluiscono negli oceani, cosi che il mare è il più gran cantastorie del mondo, perché tutte le storie sono nelle sue acque, nei sui abissi, nelle sue spume. Cosi come le gocce che evaporano e diventano nuvole, e dopo cadono sulla Terra e sugli esseri viventi.
Una di esse è questa, scritta con gocce di pioggia sull’asfalto con la colonna sonora di un juke box di un bar vuoto.
Si sciolsero come neve al sole. Non poteva essere diverso. Gavril e Larissa, non sopportarono il mondo, o è stato questo mondo a non sopportarli.
Guardai verso il cielo, facevo questo per vedere in che direzione volavano le nuvole, e per di più che a volte ci metessi molto per percepirlo, alla fine sempre le vedevo muoversi. Perché sempre c’è vento, a meno che non sia un sogno.
Pensai ancora in tutto quello. Le persone sono diverse, e non tutti riescono a passare l’adolescenza. Ma non avevo mai visto quello, che lo notassero coscientemente e si rendessero conto che era un salto al quale non sarebbero sopravvissuti… Romeo e Giulietta avrebbero pianto con questa storia, che di romantico forse non ha quasi niente.
Guardai verso il cielo, era il tramonto e la volta celeste era rossa… e le nuvole erano immobili

Le foglie cadono, e per più che sembrano volare, stanno cadendo, inevitabilmente tirate dalla gravita. Volano, volano, volano. Gavril e Larissa sorrisero ancora, si guardarono, prima di fondersi nella stessa materia della quale sono fatti i sogni

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